lunedì 7 gennaio 2013

La Cattività della Natività (il post-epifania?)


Se c'è una cosa che mi ha sempre messo un grande senso di tristezza sono gli addobbi natalizi accesi dopo il 6 Gennaio, quella pioggia di luce fuori dai negozi, gli alberi di natale con i rami puntati verso il basso, le stelle comete. Si, soprattutto le stelle comete, con quella loro dinamica staticità, quel senso di irrisolto (come fa ad avere una coda scintillante una stella immobile?), quel luccichio decaduto per la polvere e lo smog. Ricordano, con una meccanica contraria, gli ombrelloni a settembre, quando "la stagione" è finita e solo pochi fortunati godono delle spiaggie deserte e del sole breve e meno aggressivo. Anche i supermercati sono pieni di bancali di panettoni non venduti, di dolciumi prossimi alla scadenza e, per questo, in saldo a tutti i costi, di pesce surgelato dalla dubbia provenienza, di spumante e bibitoni fatti con le bustine dell'idrolitina degli anni 80 (a proposito, devo ad uno speciale regalo di Natale di Luca la scoperta che l'idrolitina esiste ancora, si chiama Cristallina, ha lo stesso logo delle merendine kinder, infatti la produce la Ferrero, e rende l'acqua frizzante, salata e portatrice di calcoli renali, esattamente come qualche lustro fa). Ho vagato tra quei bancali come un sopravvissuto ai bombardamenti su Berlino durante la guerra, non ho comprato dolci (per quello è bastato il fagotto di mia mamma) ma ho fatto una spesa ecosostenibile ed economicamente virtuosa. Mi sono sentito una brava massaia. Mia mamma sarebbe orgogliosa di me, ho pensato. 

Le vacanze sono scivolate via velocemente, regalandomi, per la prima volta da molto tempo, qualche giornata di preziosissimo riposo. Il cuore non ha mai smesso di discutere con i suoi fantasmi, ma una specie di tempesta familiare, i chiarimenti e la rinnovata fiducia nel potere dei legami di sangue mi hanno conferito un ottimismo fanatico e decisamente salutare. La maggior parte delle famiglie si tengono in piedi in virtù di compromessi più o meno accettabili, di silenzi, di rinuncie e di piccoli, continui espedienti. Altre, come la mia, si reggono su una definita individualità dei propri membri e, proprio per questo, basano i propri rapporti su prinicipi di autentica, generosa, mutualità. Sento di non avere mai amato così intensamente la mia famiglia come in questi momenti e non c'è sentimento più bello che questo natale potesse regalarmi. 
Celebro il mio personale album di famiglia con un racconto che Francesco Tarzia, uno scrittore e professore toscano, ha pubblicato qualche anno fa su una rivista letteraria, basandosi sul racconto drammatico di un giovane medico, mio padre, all'inizio della propria carriera. Il racconto si chiama, per l'appunto, "Il dramma di un giovane medico" (Calabria letteraria, n.10, 1994).

Roberto è adesso un medico affermato con uno studio modernissimo e attrezzatissimo. Ogni estate ci ritroviamo, assieme alle nostre famiglie, sulle spieggie di Soverato, sotto gli ombrelloni bianchi e blu dell’Ottagono: lui, la moglie e due figli; io, mia moglie e un piccolo Yorkshire tutto pelo e voce.
Si rinnova, ogni anno, la nostra amicizia, un sentimento di quelli che non dovrebbero avere mai fine, fatto di stima reciproca, di confronti culturali dopo i quali ognuno si sente un pochino più arricchito, di scambi, di esperienze di vita che, per lui come medico e per me come professore, sono infinite e varie. Manco a dirlo, tra le nostre consorti regna il miglior accordo e diverse sere ci troviamo tutti a folleggiare sulle padane da ballo di qualche locale notturno della zona.
Parlando delle nostre esperienze presenti e passate, quest’estate Roberto mi fa: “Tu che sai scrivere, dovresti saper rappresentare meglio di me una delle mie esperienze più drammatiche”.
Solleticato dalla curiosità raccolgo l’invito: “Proviamo, raccontala!”.
E Roberto comincia...
“Era il 1975 e io, laureato fresco fresco, avevo appena superato l’esame per l’esercizio alla professione e avevo impiantato l’ambulatorio nel mio paese che, allora, aveva poco più di 2000 abitanti, comprese le capre, come si suol dire. Il medico che c’era, era in età avanzata e difficilmente si muoveva da casa, per cui la mia possibile concorrenza non lo infastidiva, perchè sapeva che mi sarei trovato sul groppone tutti i pazienti che lui avrebbe scaricato volentieri, affidandoli alle mie amorevoli cure. Io, giovane ed entusiasta, leggevo ogni giorno il Giuramento di Esculapio, che faceva bella mostra di sè ben incorniciato nel mio studio, e mi vedevo nelle vesti di un angelo di salvezza per molti sofferenti.
Almeno un terzo degli abitanti era dislocato nelle campagne circostanti e i loro abituri non erano forniti di elettricità, di acqua potabile e di fognature.
Questo terzo di popolazione, per evitare di attendere due o tre giorni la visita del vecchio medico, col rischio di veder decollare l’anima del paziente verso il cielo, piano piano cominciò a rivolgersi a me, anche se con una certa riluttanza a causa della mia giovane età. Così cominciai a vedere materialmente molti di quei mali che avevo studiato in teoria, ma, soprattutto, cominciai a toccare con mano la sofferenza e le miserie che assilavano quella povera gente, che, dopo le prime diffidenze, si affidava a me completamente, più che al confessore, e che per sdebitarsi (parlare di onorario era un’ottimistica utopia) si toglieva di bocca il mangiare emi compensava con qualche pollo, una dozzina di uova, la soppressata. Qualche rara volta, in prossimità delle festività più importanti, pagava anche con denaro:  lo toglieva, arrotolato e lercio, nei quali lo teneva annodato strettamente o da dentro certi portafogli maleodoranti. 
Prima di darti quelle poche carte da mille lire, le palpava, le contava, le ricontava, le strusciava fra i polpastrelli, le guardava con dolore come se stesse per separarsi dal figlio prediletto: poi te le abbandonava tra le mani e se ne andava via con i lucciconi agli occhi. E ti lasciava con un immenso senso di colpa e con un vuoto alla bocca dello stomaco, come se glieli avessi rubati. Unghie incarnate, ferite di tutti i tipi, morsi d’animali e punture d’insetti, coliche, indigestioni, influenze, mal di fegato, ulcere, reumatismi, emorroidi, cardiopatie: mi andavo facendo una vasta casistica. Solo che i miei poveri pazienti, anche a causa della scarsità d’acqua, non avevano ancora imparato a farsi un buon bagno prima di andare dal medico, per cui il bagno lo facevo io, almeno tre volte al giorno, per cercare di togliermi di dosso il selvaggiume trasmessomi dai miei pazienti. Il mio vecchio collega, che almeno agli inizi doveva averla passata peggio di quanto la stavo passando io, quando mi incontrava mi faceva un sorriso di sincera comprensione e mi diceva: “Allora, caro collega, come va? Hai visto quanto c’è da fare? Se posso esserti utile in qualche occasione non mi risparmiare!”. Ed in effetti, certe volte, seduti al bar, tra una chiacchiera sulla politica locale ed una barzelletta allegra, parlavamo anche di casi particolari, scambiandoci le nostre opinioni. 
Erano ancora tempi in cui fra colleghi ci si aiutava. La sera andavo a letto tardi perchè studiavo e dovevo riordinare le idee sui vari casi che avevo per le mani. 
Eravamo giunti a Dicembre, alla festa dell’Immacolata, e una notte senti bussare all’uscio. Stanco com’ero mi ripromettevo di rimandare la sicura grana al giorno dopo ma... “Signor Dottore, perdonatemi se vi importuno a quest’ora della notte, ma dovreste venire urgentemente a casa, che c’è mia figlia Rosina che sta morendo per una colica. Si sta contorcendo dal dolore e noi non sappiamo cosa fare”.
Di fronte a tanta disperazione non seppi dire di no. Mi rivesti, presi la valigetta, feci incetta di medicinali vari (tanto lo sapevo che mi sarebbe toccato dare un’occhiata agli altri membri della famiglia) e salii sul motocarro del mio clienti.
Dopo mezz’ora di scossoni e di sbatacchiamenti, in un buio che solo la sua conoscenza dei luoghi permetteva di violare, giungemmo in un rifugio rabberciato alla meglio, un pò in muratura, un pò in legno ed il resto in vecchie lamiere procacciate chissà dove. Entrammo in quell’unico ambiente dove si svolgeva la vita quotidiana notturna e diurna di tutta la famiglia (un pò come nei trulli pugliesi). Era tutto là dento: cucina, stanza da pranzo, stanza da letto, studio per i bambini che frequentavano la scuola. Come divisorio una coperta tarlata, che penzolava quasi fino a terra, appesa per lungo al soffitto.
Il cesso era un casotto sito all’esterno, vicino alla concimaia.
Entrato dentro vidi tutta la famiglia che mi aspettava: la moglie e tre maschietti dai tre ai dieci anni: Rosina era sdraiata sul letto e si lamentava. L’unica luce a disposizione, quella soffusa da tre puzzolenti lampade di latta ad olio con lo stoppino.
“Buonasera Filomena, cosa cosa ha la nostra Rosina? Fa i capricci?”.     
“Signor Dottore! Il signore vi benedica! La povera piccolina sta morendo per le coliche: è dalle dieci che grida! Le abbiamo dato la camomilla con un pò di papavero ma non le ha dato beneficio. Allora ci siamo decisi a chiamarvi!”.
“Quanti anni ha la signorina?”.
“Macchè signorina! E’ una bambina! Deve ancora finire sedici anni”
“Beh, adesso la visitiamo, le diamo una bella medicina e così le passerà tutto”.
Rosina si ribellò: “non voglio essere visitata. Non voglio che mi vedano i miei fratelli. Tra un pò mi passa, come l’altra volta”.
“Allora no nè la prima volta? Facciamo così, Rosina: mettiamo la tenda in modo che i fratellini non ti vedano, così ti posso visitare”.
Dopo un pò di tira e molla, Rosina acconsentì. Tirai giù la coperta tarlata e cominciai l’indagine. Come le alzai la veste logora e sporca per tastarle l’addome restai impietrito: mi trovavo davanti ad un pancione di una gravida di almeno sette mesi. Ma come non se n’erano accorti? Soprattutto la mamma?
Essendo alle prime armi, sperai di essermi sbagliato: chissà poteva darsi che si trattasse di un caso di idropsia! Non avendo avuto ancora esperienze di gravidanze e di parti, feci una visita accuratissima, ripetendo a mente tutta la sintomatologia che avevo studiato all’università. I segni rilevatori erano inconfondibili, soprattutto l’alone brunastro intorno ai capezzoli: non c’era alcun dubbio, Rosina era incinta! Allora con molta delicatezza la ricoprii e incominciai a interrogarla.
“Allora Rosina, dimmi la verità. Hai un fidanzato? Qualche ragazzo che ti viene dietro?”.
“Che dite, signor dottore, tutto il giorno a lavorare!”.
“Possibile che una bella ragazza come te non abbia ancora il fidanzato? Allora gli uomini di qua sono ciechi?”.
“Ma che fidanzato e fidanzato! Io non ho nessuno, anzi, non fatevi sentire da papà che dite queste cose”.
Allora fui costretto ad essere più esplicito: “Senti Rosina, a me non pui prendermi in giro: tu si incinta, gravida, aspetti un bambino! Qualcuno deve essere stato a farti questo servizio!”.
“Ma che andate dicendo! Io non ho mai avuto rapporti con nessuno! Nessuno mi ha toccato! Chiamate la mamma!”.
Tutto questo a bassissima voce! Dolo qualche altro diniego, alfine Rosina sbottò: “Io non so niente: Nicolino sa quello che ha fatto!”.
“E chi è questo Nicola?”.
“E’ mio fratello il grande, ha 19 anni e fa il soldato. Ogni volta che viene in licenza mi fa fare certe cose perchè dice che le devo imparare”.
Mi sentii crollare il mondo addosso! Come facevo adesso a spiegare a quei poveri genitori che avevano l’unica figlia gravida e per giunta per opera del fratello maggiore? Con la mentalità di quella gente c’era da scatenare una tragedia!
Come alzai la tenda, la povera madre era pronta con la catinella e il sapone per farmi lavare le mani: sul suo volto c’era un’ansiosa aria d’attesa fiduciosa!
“Allora, sigor dottore, non è niente? Le passerà presto?”.
Mentre mi asciugavo le mani, mandai fuori con una scusa, e nonostante il freddo notturno, i tre fratellini perchè non sentissero; poi, cercando disperatamente le parole che credevo più adatte e più rassicuranti, con la maggiore delicatezza che riuscii ad esprimere, misi al corrente quei disgraziati genitori della situazione. In un primo tempo essi rimasero increduli ma, poi, l’evidenza dei fatti e la confessione di Rosina li fecero crollare. La madre scoppiò in lacrime; il padre s’impietrì e mi disse con voce che sembrava di ghiaccio: “Grazie signore dottore. Ora vi accompagno a casa visto che sarete stanco”.
Durante il viaggio di ritorno, tra un sobbalzo e l’altro, cercai di spiegargli che non si poteva dare la colpa a nessuno e che erano cose che potevano capitare. Era come parlare con la notte: non spiccò parola.
La mattina, alle sette, era ancora buio e avevo fatto, si e no, tre ore di sonno, quando fui risvegliato dallo squillo disperato del campanello. Mi alzai inferocito e mi affacciai: “chi è a quest’ora?”.
“Correte dottore, Rosina mia sta morendo!”.
Senza pensarci due volte mi misi addosso quello che riuscii a trovare e, con la valigetta dei ferri ed il sacchetto dei medicinali, mi buttai nel motocarro che stava già mettendosi in moto. Invece della mezz’ora ci impiegammo venti minuti e fra le capocciate e le gomitate, venni a sapere che Rosina, alzatasi nella notte per andare al cesso, era caduta nel vicino fosso ed aveva abortito.
“Abbiamo chiamato subito la levatrice che ha tirato fuori il feto e voleva che fosse chiamato l’altro medico perchè Rosina perdeva sangue, ma io sono subito venuto a chiamare voi”.
Come il motocarro si fermò, mi precipitai subito dentro e mi sembrò di vedere dal vivo una di quelle scene infernali illustrate da Gustavo Doré per la Divina Commedia: in una bacinella il feto morto e insanguinato; sul letto, Rosina, pallida come un cencio, con la mammana (levatrice) che continuava a cambiarle panni insanguinati. 
La mamma piangeva silenziosamente dondolando la testa e strappandosi i capelli, e i tre fratellini atterriti, abbracciati insieme, stretti in un angolo. Presi subito in mano la situazione: con l’aiuto della levatrice visitai la povera Rosina: sembrava le fosse passato sopra un trattore; non c’era parte del corpo che non presentasse ferite. 
Era davvero caduta nel fosso? Anche lei lo giurò e lo spergiurò ed io non ebbi il coraggio di andare più a fondo.  Feci quanto era nelle mie possibilità poi convinsi i gentori a fare denuncia dell’accaduto e provvidi a fare ricoverare Rosina in ospedale. 
Dopo l’Epifania vennero a trovarmi Rosina col padre. Rosina si era rimessa abbastanza bene ora era ben vestita e figurava meglio, ma era ancora pallida e smagrita.
“Signore dottore, Rosina è voluta personalmente venire a ringraziarvi per quanto avete fatto quando ha avuto quella colica (e calcò forte sulla parola colica) ed ha voluto portarvi questo regalo”. E mi porse una busta tutta unta di ditate e quattro caciocavalli. Strizzandomi l’occhio: “sono le provole che facciamo per noi”.
Poi aggiunse gravemente: “Nicolino non può più tornare a casa perchè ha trovato lavoro in Svizzera e appena finisce di fare il militare si trasferisce subito là”.

Francesco Tarzia è morto qualche anno fa. Era una persona profonda e straordinariamente simpatica per cui sono sicuro che mi perdonerà se mi sono preso la libertà di tradurre in italiano tutte le frasi originariamente scritte in dialetto.

domenica 2 settembre 2012

Via della Memoria snc


La casa della memoria ha un indirizzo preciso e dei connotati perfettamente identificabili, è una via, un palazzo, una porta senza chiave. La conosco da quando sono nato e custodisce, immutabile, i ricordi della mia prima vita. Mio padre, che poi è il suo sovrintendente, la conserva con la stessa attenzione e perizia che userebbe un antiquario per preservare le sue opere d'arte più significative e di valore e questo permette alla casa della memoria di mantenere inalterate tutte le possibili reminiscenze.
Da un tappo bianco incastrato nel  buco del lavandino parte il mio personale viaggio nelle stanze di quella casa. E non posso non rievocare i  tentativi di rimuovere, con qualsiasi arnese domestico possibile, quel piccolo tappo bianco incastrato troppo in  basso, la paura di mia madre di aver compromesso la capacità di scarico, il terrore di dover smontare il lavabo e della polvere degli operai.
In barba a qualsiasi logica idraulica quel piccolo tappo del tubetto di "cortison chemicetina" è ancora al suo posto. Certo è meno bianco e brillante di una volta ma ha superato agevolmente gli incastri del tempo e rimane lì, a ricordarmi che potrò abitare centinaia di case diverse in mille città diverse ma che mai potrò separarmi completamente dalle tracce di ciò che è stato.
Le piastrelle verde scuro, il brusio della luce bianca del neon dietro lo specchio, il rumore incontaminato della cinematica delle cose: tutto ha un senso preciso e una logica emozionale che conduce al passaggio successivo, ai cassetti, ai libri (che aprono altri infiniti universi di memoria), alle fotografie. Per ogni oggetto che sposto, per ogni libro che apro e lascio fuori posto c'è mio padre, che mi segue come un segugio e con una dolcezza che mi commuove rimette metodicamente ogni cosa al suo posto, preservando, inconsciamente, il cammino del percorso della memoria. Non credo sia consapevole della missione che la nostra storia familiare gli ha affidato ma sono sicurissimo che continuerà a svolgerla con una dedizione che lo scorrere del tempo contribuisce a rendere sempre più armoniosa e poetica.

Sono settimane che Roma non vede la pioggia e forse è per questo motivo che oggi, una domenica qualunque di settembre, il tradizionale silenzio del non lavoro si mischia con un'aspettativa collettiva vagamente sacrale della pioggia. E' quasi religioso il silenzio che accompagna le caduta delle prime, piccole goccioline e il quadro complessivo che si disegna in cielo non altera l'equilibrio della luce nè il non-suono del silenzio.
Aspettavo e desideravo questa pioggia. Mi obbliga ad una forzata clausura e annulla qualsiasi necessità di giustificazioni improbabili. Nell'immutabilità di questa specie di prigionia domestica concentro tutte le forze sulle energie invisibili che vibrano ancora fortissime nell'aria. Sono frasi patetiche scritte su post-it che sfidano con invidiabile tenacia le forze di gravità. Pietre preziose rarissime in un universo di cocci di vetro,  frammenti di una vita dolcissima di cui ho smisurata nostalgia e incalcolabile desiderio.

Se non ti vedessi più avrei la sicurezza
che stavo sognando, che nulla era vero
che il mio letto galleggia
in un mare di sogni che facevo per noi
L'estate di domani, Diego Mancino

domenica 1 luglio 2012

La guerra è finita!

Il rumore sordo - il tonfo - di una pesante porta di metallo che si chiude può diventare, ad alcune longitudini emotive, una specie di richiamo naturale verso un puerile desiderio di rilascio meta-dimensionale, lo stargate attraverso cui tentare un improvviso salto nelle curvature dello spazio-tempo, oltre i concetti, le filosofie, le parole, dove l'unica regola è una sterile e allo stesso infinitamente complessa sequenza di numeri, dove l'unica verità è essere. O il suo esatto contrario.

La televisione sputa immagini confuse, parole gutturali e sottotitoli che non sono nemmeno in grado di decifrare ma con mia grande meraviglia mi restituisce la luminosità che volevo, la migliore di quelle possibili, almeno nelle condizioni in cui mi trovo.

Ho smesso di scrivere quando tanti hanno iniziato a chiedermi del "blog". Come se un diario, approssimativo riassunto di un esistenza interamente individuale, potesse essere aggiornato come un almanacco del giorno dopo.
Non ho mai scritto per la soddisfazione di essere letto e quindi, per definizione, ho sempre evitato di cadere nella trappola dei blogger di professione o, peggio ancora, di coloro i quali, attraverso più moderni social network, si sono scoperti geniali scrittori creativi in meno di 140 caratteri.
Parafrasando uno dei migliori album usciti in questi ultimi anni, Federica, oramai un bel pò di tempo fà, ha definito questo mio tentativo di sforzo creativo, una "cattiva abitudine". Non ricordo il contesto, ma mi piace pensare che il senso ultimo di quella definizione fosse l'intenzione di descrivere il percorso - prima ancora che l'esegesi - attraverso cui su origina il caratterere costruttivo/distruttivo delle mie parole.

"...e così veniamo avanti, simili in tutto a quelli di ieri, aggrappati ad un'immagine condannata a descriverci"

Spengo la televisione. Tutto dovrebbe essere più buio, almeno così avevo immaginato, ma le finestre filtrano le luci del cortile interno e lo schermo del computer, inevitabilmente, fa danzare le ombre delle mie dita sulla tastiera. Il frigorifero, poco distante da me, malgrado l'unica sua funzione sia quella di raffreddare solo quel poco di acqua al suo interno, emmette gorgoglii sinistri e fuori dal comune. Penso cose stupide, tipo che le differenze tra due popoli si possano misurare anche attraverso l'efficenza e la distribuzione negli ambienti degli elettrodomestici, che il polietilene è il più elementare dei polimeri sintetici ma serve a tante cose, che le padelle di ceramica hanno cambiato il mio modo di cucinare i cibi. Cose stupide. Appunto.

Un'ora fa cercavo una penna e ho trovato un computer. Ora sono stanco. Ho sonno. Domani è primo luglio e l'unico mio desiderio è che qualcuno mi svegli citando un vecchio film. "Sveglia. La guerra è finita".

domenica 3 aprile 2011

Sofisticata

Francesco Piccolo è uno scrittore intelligentemente sofisticato, capace di scrivere cose così spaventosamente quotidiane da apparire terribilmente interessanti, soprattutto di questi tempi, in cui la cosa più frequente è confrontarmi con persone il cui unico obiettivo sembra essere quello di convincere il prossimo di possedere qualità non convenzionali e ricercate. La sofisticazione dello stile è un esercizio sterile per persone povere di spirito, degne soltanto della loro cieca ricerca di continuità mediocre, verso cui proprio non riesco a provare quel dorato regno di indifferenza ma solo un'interminabile scia di odio sofisticato. In "Momenti di trascurabile felicità" Francesco Piccolo, con una geniale perfidia che faccio seriamente fatica a non invidiare, racconta frammenti di vita comuni, stravissuti ma assolutamente geniali nella loro sfacciata semplicità. Quello che mi fa sorridere di più è questo:

Mia moglie, quando era una ragazza, è stata fidanzata per molto tempo con un ragazzo che si chiama Michele. Per anni, quando raccontava di averlo incontrato, oppure che aveva avuto notizie di Michele, i suoi familiari dicevano sempre: ma chi? Michele nostro? Quando ci siamo sposati, da quel giorno in poi, quando si parla di Michele, anch'io ho cominciato a dire con una certa soddisfazione: ma chi? Michele nostro?

A lavoro sono stato inserito in un progetto europeo. Ho il compito di studiare e proporre, insieme a dei colleghi stranieri, un nuovo modo di fare una certa cosa e di internazionalizzare un processo. Faccio frequenti conference call e viaggio all'estero per incontrare il mio team. Mi confronto costantemente con modi di pensare distanti e diversi dal mio, sento di trarre un beneficio straordinario da un'esperienza naturalmente multiculturale, incontro persone singolari e sono sedotto dalle storie che ascolto e da quello che imparo. E' incredibile, tuttavia, come proprio nei momenti in cui mi sento maggiormente figlio delle esperienze che faccio io senta un istintivo e sincero bisogno di ritornare alla mia non-famiglia, a mia madre, a mio padre, al pensiero degli anni che trascorrono con questa dannata fastidiosa disinvoltura, a tutte le volte in cui ho bisogno di loro e vorrei dirgli che fatico a saperli lontani. Ci sono dei vuoti e delle mancanze che non è possibile colmare con niente. Negli incastri delle trame dei ricami del tempo ci sono intere stagioni che aspettano di essere vissute e altre che trascorrono silenziose, in attesa di qualcuno che trovi il coraggio e l'arroganza di rimpiangerle.


"...dimentichiamo tutto questo e continuiamo ad andare - gli occhi chiusi, le braccia aperte - in equilibrio, nel nostro monotono sublime."

Robert Lowell, Massimo Volume

domenica 31 ottobre 2010

Cattive abitudini

Mi sono svegliato con la stessa voglia di ascoltare i Massimo Volume con la quale ero andato a dormire. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto nei negozi dove sono solito acquistare i miei libri sono stato costretto a ordinare il disco direttamente dall'etichetta discografica, e questo si è tradotto nell'ineluttabile conseguenza che ancora non posso ascoltare il cd e sono costretto a fare ricorso a youtube per godermi "Cattive Abitudini". Di solito ascolto tutto l'album prima di esprimere il giudizio fatale se entrerà o meno nella storia degli album che hanno fatto la differenza. Per i Massimo Volume, ovviamente, saltano tutte le regole: mi innamoro del primo pezzo dell'album e arrivo subito alla conclusione che Emidio è tornato a stupirmi e ad emozionarmi. "Robert Lowell" è un pezzo che restituisce tutte le atmosfere de il primo dio, che ti sussurra frammenti sottili e preziosissimi di immagini appena sussurrate, che sento la presunzione di dover completare e urlare: consideriamo questo piuttosto che il resto, il peso di cose fatte male e fatte in fretta, cumuli di immagini sfocate su cui si punta il dito senza convinzione, solo per poter dire "questo sono io", nell'illusione che ciò che siamo riusciti a dire fosse ciò che avevamo da dire.

Ho il sonno turbato dai termosifoni da spostare, dall'idea che sto dormendo in salotto, dai punti luce immaginari. I tuoni che mi svegliano si sposano con "Robert Lowell". Mi alzo che sono appena le 8, troppo presto per essere domenica, ma è cambiata l'ora legale, Rossella non c'è e sono andato a dormire non troppo tardi. Lo start-up del computer è drammaticamente lento e penso di ingannare l'attesa provando a preparare il caffè con l'ennesima moka che abbiamo comprato. Il risultato è pessimo e comunque non inferiore alle aspettative. Dedico 5 minuti a Youtube e poi mi vedo 5 volte il notiziario della BBC. Rob, il mio insegnante di inglese, mi ha imposto di guardare almeno 4 notiziari e di riportare le informazioni più importanti su uno schemino che ricorda il gioco "nomi-città-animali-etcetc": where-subject-reasonwhy. Ho finito i compiti e inizio a vestirmi. Decido di celebrare questa domenica vestendomi da ufficio ma con colori scuri. Nel piccolo paese della piccola provincia della piccola città in cui sono nato la gente sfoggia gli abiti migliori proprio di domenica mattina. Oggi rispetto questa tradizione: indosso la giacca e i miei pantaloni preferiti, ho la pashmina scura, la barba leggermente lunga e una specie di cresta sui capelli che mi rifiuto di pettinare. Il risultato ha qualcosa di vagamente omosessuale ma mi piace ed esco di casa allegro e soddisfatto. Da qualche parte ho letto che i centri commerciali, nelle grandi città, hanno sostituito le piazze e sono diventati i luoghi di socializzazione per antonomasia. I sociologi rabbrividiscono ma gli architetti sono molto più bravi di loro a creare ambienti confortevoli e adatti a tutte le esigenze. E' mattina presto quindi non trovo la solita confusione domenicale, ho una serie di missioni speciali da compiere e le eseguo con matematica precisione: comprare un caffè di qualità (fatto), comprare un regalo a mia sorella (fatto), comprare un regalo al mio nuovo amichetto Mattia (fatto). Il regalo a mia sorella è la parte più complessa e l'ostacolo più impegnativo. Nelle ultime settimane ho regalato 2 pigiami a Rossella e mi appresto a comprare l'ennesimo indumento, nell'identico negozio, per mia sorella. Entro con aria vaga e approssimativa ma, come se fosse scritto sul vangelo, mi si avvicina la stessa commessa a cui ho chiesto aiuto per i precedenti pigiami. E' mascolina, piena di piercing e ho la netta impressione che mi tratti - giustamente - come uno che compra 3 pigiami da donna in un mese. Supero l'imbarazzo con stoica fierezza, pago e mi faccio fare pure un pacchetto regalo. Sono talmente tanto lanciato che quando Rossella mi chiama e mi dice di comprarle i "leggings-da-calzedonia" affronto un negozio pieno di donne con spavaldo senso del dovere. Ho tutto sotto controllo. E' ora di ritornare a casa. Se mi passa la nausea mi faccio un pranzo favoloso e un caffè da antologia.

Dimentichiamo tutto questo,
l'insormontabile scarto
che fissa il prezzo
della nostra libertà
il terrore dell'assenza

di oggetti che ci sopravviveranno
la muta presenza.
Dimentichiamo tutto questo
e continuiamo ad andare
gli occhi chiusi
e le braccia aperte
in equilibrio

nel nostro monotono sublime.


venerdì 8 ottobre 2010

Stazione Eleganza

In altri momenti della mia vita ho avuto la presunzione fatale di definirmi un infinito creativo. Pensavo di essere capace di produrre qualcosa che fosse un'idea realmente innovativa, un libro sulla storia di un personaggio che abita nel mio cervello, una raccolta di pezzi composti con sontuosa lentezza durante questi ultimi 10 anni, un olio su tela o un più banale racconto degno di nota. Niente. Di tutti i progetti potenziali che mi illudevo di possedere latenti nelle mie mani non è rimasto che il titolo che avrei dato alle cose: "Stazione eleganza". L'inizio e la fine di un viaggio nella memoria delle cose che il tempo non ha il coraggio di trasformare, perchè ci sarà sempre qualcuno in grado di raccontarle (di visualizzarle, di leggerle), perchè rimarranno immutate nella loro persistente e seducente eleganza.

La vita nelle realtà sociali complesse impone dei doveri di relazione che prescindono, per loro stessa natura, da un'intima presa di coscienza individuale. Ritornare a congetturare su se stessi in quanto individui che sono "altri" per gli altri complica ancora di più le cose e pone un'interessante questione sulle sembianze fisiche e psicologiche che offriamo a coloro i quali interagiscono quotidianamente o, ancora peggio, occasionalmente, con noi. Quello che rende quest'esercizio inconsueto è il fatto che ognuno di noi è solito percepire se stesso come una realtà mentale e si abbandona a considerare tutti gli altri come delle realtà fisiche, alcune volte elementari, altre volte complesse, ma quasi sempre solo fisiche. Qualche giorno fa mi sono posto l'inutile problema di capire che modello di persona potevo apparire agli occhi di tutti quelli che interagiscono con me: che colore ha la mia voce, come vengono percepiti i miei gesti, che impatto ha il rumore del tono delle mie parole, come la mia vita apparente possa (o non possa) imprimersi nella memoria visiva dell'interpretazione degli altri.
Non riesco a uscire da me stesso e, pertanto, non ho la facoltà e la capacità di vedermi dall'esterno. Occorrerebbe un'altra coscienza, un'altra anima, un punto di vista talmente esterno da non essere più mio. D'altra parte faccio perfino fatica a vedermi ritratto in alcune foto del passato, butto i vestiti vecchi perchè sento che non possono essermi appartenuti, ho pudore nell'ascoltare la mia voce registrata, quell'eco lontano di inflessione dialettale meridionale. Non riesco a vedere oltre la nebbia plumbea che avvolge completamente la coscienza che ho di me.

Il silenzio, a volte, è perfetto meta-pensiero allo stato puro. Andrea, un collega più attento e piacevolmente più invadente degli altri, mi chiede se dietro il mio sovrappensiero (la cui manifestazione esteriore è certamente il silenzio) si nascondano non meglio precisati problemi (che nel linguaggio di tutti i giorni definiremo "rodimenti di culo"). Apprezzo lo sforzo e la disponibilità all'indulgenza, ma non ho sufficiente pazienza, né probabilmente voglia, di spiegargli che un amore immenso muove vorticosamente tutti gli universi in costante espansione nel mio cervello. I neuroni, nella loro incessante e vorticosa sintesi della serotonina (C10H12N2O), trasportano ogni mia più intima essenza verso paradigmi emozionali un tempo inimmaginabili. Il senso della vita, in certi meravigliosi giorni, è nel sorriso che le labbra non hanno la presunzione di contenere. Il resto è disordine. E non ci appartiene.

martedì 31 agosto 2010

Aderenze (parte II)

Vivere senza l'assurda pretesa di dover pensare. Oggi pomeriggio, all'improvviso, mi sono fermato a riflettere sulla persona che ero. E' stato un momento di grande stanchezza, dopo un lavoro senza particolare rilevanza (anche un lavoro di marketing, malgrado l'apparente creatività che l'espressione suscita nelle persone poco predisposte al business, ha delle lunghe parentesi di noia). Ho appoggiato la testa sulle mani, con i gomiti ben posati sul tavolo, nel tentativo riuscito di frenare il peso della spossatezza. Ad occhi chiusi, in un buio ipotetico, ho ritrovato una parte di quello che ero. Inevitabilmente ho sentito subito la percezione dell'inutilità di tante esperienze che credevo importanti. Vedere, sentire, ricordare o dimenticare: tutto questo si è confuso in un vago dolore ai gomiti e alle mani, in mezzo al solito mormorio tranquillo dell'ufficio in cui lavoro. E' molto difficile riuscire a capire se certi spasmi interiori, proprio per la genesi ambigua e superficiale che hanno, abitino nell'anima o nel corpo, se nascono da un'analisi sistemica della vita o da una più umana e banale indisposizione organica. Che sia stato il pranzo e le poche ore di sonno o le riflessioni di quel momento poco importa: fatto sta che, per un pò, il mio pomeriggio si è riempito di un vago senso di nausea esistenziale.
Ho drammaticamente preso consapevolezza del come sono esistito: l'approccio ad alcune emozioni ha assunto i contorni di un inganno dozzinale (come alcuni palazzi in alcune periferie che non abbiamo il pudore di ricordare) e palesemente malato. Ancora adesso, mentre scrivo, mi stupisco di quello che ho provato prendendo consapevolezza di quello che sono. Mi stupisco di tutto quello che i miei occhi non sono riusciti a vedere. Le idee più radicate, i miei gesti più convinti, le mie preposizioni morali altro non sono state che un inganno metodologico, un'ebbrezza istintiva, una colossale ignoranza.
A trent'anni ormai ampiamente consolidati ho imparato, sulla mia pelle mai stata così liscia, che possono esistere rivoluzioni molto più significative di quelle generate dall'ambizione senza eleganza di una vita che, nel tentativo di correre più veloce, perde i suoi frammenti più pregiati. Il senso più intimo della mia intera esistenza abita nelle aderenze dei nostri incantevoli risvegli, nelle dolcissime carezze, nelle complicità, nelle lacrime e nell'affascinante disperazione dei distacchi che ancora non ho imparato completamente ad accettare ma che ho l'onore di celebrare ogni volta che i miei occhi impazienti si posano sulle tue labbra adorabili. La mia rivoluzione autentica è in ognuno dei tuoi sorrisi migliori. L'inizio di un universo in costante espansione. In cui vivo e mi perdo. Meravigliosamente.

sabato 24 luglio 2010

La verità degli occhi

La voce profonda e l'intimità del basso di Emidio Clementi rendono meno vagamente approssimativo questo risveglio di fine luglio. Il suono del cellulare/sveglia non ha fatto in tempo a violare i miei sogni, l'ho preceduto, come spesso capita, e mi sono alzato con la stessa sensazione di dozzinale rumore di fondo con cui ero andato a dormire. Ho lo stomaco chiuso ma riesco ugualmente a ingurgitare 2 biscotti al cioccolato ormai sciolti dal caldo e uno yogurt. E abbiamo camminato incontro a tramonti muti che si ha pudore di guardare e abbiamo dimenticato i nostri corpi inadeguati, sperduti, abbiamo riso. Le nuvole sono immobili e senza contorno... Il sole sembra aver perduto lo splendore degli ultimi giorni, la lenta ripresa dei sensi mi fa percepire un odore affascinante e malinconicamente evocativo: qualche goccia di pioggia sta bagnando la terra. Qualche goccia di pioggia mi ricorda che l'estate sa di non poter essere perfetta. Recupero lo stendino in terrazzo, fortunatamente la pioggia non ha toccato ancora la biancheria e, siccome è asciutta, decido di raccogliere tutto.
Non è quasi mai capitato nei momenti importanti, ma nelle esperienze (e la raccolta dei panni è una di queste) che reputo le meno significative e più deprimenti della mia esistenza sono quasi sempre drammaticamente solo.

Le cose non riescono a trattenere i colori. Dentro questa foto gli oggetti sono solo macchie incerte dai colori differenti... Uno dei ricordi più forti che conservo del mio nonno paterno è il contrasto tra quella che - non faccio nessuna fatica a immaginare - era stata un'esistenza difficile, dettata dalla privazioni della guerra e dalle esigenze basilari di una famiglia più o meno numerosa, e la tremenda infinita dolcezza del suo viso ormai ineluttabilmente invecchiato. Una pesante contraddizione tra il risultato della severità degli anni migliori e le infinite dolcissime lacrime che versava ogni volta che io o mia sorella andavamo ad abbracciarlo.
Credo che esista un filo genetico e psichico che lega le generazioni maschili della mia famiglia. Ci sono emozioni perfette che non imparerò mai a gestire nella maniera più razionale, e non possono non rimanere estasiato di fronte alle infinite varietà di colori che si imprimono, con una forza e un vigore sbalorditivo, sulle pagine dei fogli delle mie esperienze.

Ci sono uomini che piangono spesso e altri che non verseranno mai lacrime. Io appartengo alla prima categoria.

martedì 6 luglio 2010

Aderenze

Domenica è un giorno strano per iniziare un viaggio di lavoro. Il parcheggio multipiano è praticamente libero e la prima vera stranezza è riuscire a parcheggiare a pochi metri dal terminal. La seconda sono le persone che frequentano l'aeroporto, i gruppi di vacanzieri che tornano da qualche villaggio esotico (o presunto tale), il loro colorito inusuale, i bagagli stracolmi caricati sui carrelli (dai quali pendono gadget e cappelli la cui forma, il buon gusto che mi porto dentro, mi impedisce di ricordare), e la quasi totale assenza di gente vestita come me: abito blu e camicia (senza cravatta) malgrado i 40 gradi all'ombra che Roma regala ai propri calpestatori durante questo periodo dell'anno.

Il volo atterra alle 22 e ovviamente arrivo a destinazione con una buona dose di ritardo. Catania mi accoglie silenziosa ma vivamente disordinata. Manco da questa città da febbraio e faccio fatica a ricordare l'ultima volta che ho percorso quelle strade, c'è un traffico muto e forzatamente rassegnato. "E' gente che torna dal mare", mi spiega l'autista. Rinuncio a fargli domande o a simulare interesse per l'andamento disordinato degli altri veicoli, perchè capisco subito che è uno che ha la logorrea latente e io non ho nessuna voglia di parlare a vuoto. Tiene una media di 30km/h, fa strade assurde e alla fine mi ruba 50 euro. Per quanto la disprezzi, l'italica forma di fregare/non fregare il prossimo ha un fascino meschino che non posso fare a meno di ammirare.

In hotel, come al solito, sono accolto calorosamente. La cucina è chiusa ma, da ospite abituale quale sono stato, mi propongono qualsiasi cosa io abbia voglia di mangiare. Rinuncio a costringere il cuoco allo straordinario e ordino un piatto freddo e un bicchiere di vino bianco. Lascio colmo il cestino di pane, separo, da provetto chirurgo, la parte grassa del prosciutto da quella magra e la avvolgo nel melone. Non sono un goloso, il cibo non mi ha mai dato soddisfazioni, ho lo stomaco completamente chiuso ma riesco ugualmente a trovare conforto in quello che ingurgito. Sorseggio il vino e racconto ad un'eccitata Kema gli ultimi 3 mesi della mia vita. L'entusiasmo che ho nel raccontarmi e il modo con cui ripercorro le emozioni e i ricordi stemperano l'angoscia delle ultime ore.Pensavo, a 30 anni, di avere imparato a gestire, almeno da un punto di vista teorico, un'ampia varietà di turbamenti possibili e dover riconoscere a me stesso di non avere la minima capacità di gestire i distacchi non è che l'ennesima meravigliosa novità emotiva di questi ultimi tempi. Sarebbe un errore considerare queste mutate capacità di osservazione come una rivoluzione in senso stretto, perchè in fondo sono figlio di quello che sono stato e delle esperienze che ho vissuto, ma ho una protesi emozionale fiammante e straordinariamente efficace e tutto il vecchio e scontato mondo che ricordavo, visto con questi nuovi occhi, sublima ogni giorno affascinanti paradigmi meta-sensazionali.

Aderenze è il nome che ho dato al nostro personalissimo modo di vivere le quotidiane complicità. Di tutto il resto, futuro compreso, mi faccio beffe, perchè un presente così non era prevedibile nemmeno nelle favole a più lieto fine. Inevitabilmente e indipendentemente dal resto, tutto questo sarà sempre poesia. Pura sublime poesia.

Essere padroni di se stessi calma questo tempo dei gesti, essere padroni di se stessi celebra i ritorni ma non sazia...
I ritorni, Amor Fou

lunedì 3 maggio 2010

Primavere contrastanti

Ci voleva una primavera vaga e approssimativa a farmi capire che i 27 gradini che conducono alla felicità sono una costruzione mentale superabile e - ora posso ammetterlo senza beneficio d'inventario - scarsamente convincente. Ho ignorato il fastidio del clacson della macchina che proprio non voleva farmi passare, ho comprato un quaderno da scuola elementare, perchè volevo raccontare la vita sfruttando le lunghe righe alternate, mi sono sdraiato sull'asfalto ancora parzialmente compromesso dall'acqua della pioggia, ho chiuso lentamente gli occhi e ho trasformato le righe in quadretti, i pensieri in immagini, le divisioni con la virgola che ancora non so a fare in musica da quattro soldi ed emotività allo stato puro.
Ancora mi chiedo come il trascorrere del tempo e i miei non accettati trent'anni possano non avere lasciato strumenti in grado di decifrare il contenuto latente del senso perfetto delle suggestioni.

Se fossi libero dal paradosso intimo del turbamento sarei forse immune da tutte quelle manifestazioni passionali che da millenni scuotono cuore e cervello degli uomini. L'estetica contemplativa, nel bene o nel male, cede graziosamente e gradevolmente il passo al dinamismo istintivo dell'inadeguatezza costante.

Ancora una volta sono tornato ad essere vivo. Come non mai.