domenica 2 settembre 2012

Via della Memoria snc


La casa della memoria ha un indirizzo preciso e dei connotati perfettamente identificabili, è una via, un palazzo, una porta senza chiave. La conosco da quando sono nato e custodisce, immutabile, i ricordi della mia prima vita. Mio padre, che poi è il suo sovrintendente, la conserva con la stessa attenzione e perizia che userebbe un antiquario per preservare le sue opere d'arte più significative e di valore e questo permette alla casa della memoria di mantenere inalterate tutte le possibili reminiscenze.
Da un tappo bianco incastrato nel  buco del lavandino parte il mio personale viaggio nelle stanze di quella casa. E non posso non rievocare i  tentativi di rimuovere, con qualsiasi arnese domestico possibile, quel piccolo tappo bianco incastrato troppo in  basso, la paura di mia madre di aver compromesso la capacità di scarico, il terrore di dover smontare il lavabo e della polvere degli operai.
In barba a qualsiasi logica idraulica quel piccolo tappo del tubetto di "cortison chemicetina" è ancora al suo posto. Certo è meno bianco e brillante di una volta ma ha superato agevolmente gli incastri del tempo e rimane lì, a ricordarmi che potrò abitare centinaia di case diverse in mille città diverse ma che mai potrò separarmi completamente dalle tracce di ciò che è stato.
Le piastrelle verde scuro, il brusio della luce bianca del neon dietro lo specchio, il rumore incontaminato della cinematica delle cose: tutto ha un senso preciso e una logica emozionale che conduce al passaggio successivo, ai cassetti, ai libri (che aprono altri infiniti universi di memoria), alle fotografie. Per ogni oggetto che sposto, per ogni libro che apro e lascio fuori posto c'è mio padre, che mi segue come un segugio e con una dolcezza che mi commuove rimette metodicamente ogni cosa al suo posto, preservando, inconsciamente, il cammino del percorso della memoria. Non credo sia consapevole della missione che la nostra storia familiare gli ha affidato ma sono sicurissimo che continuerà a svolgerla con una dedizione che lo scorrere del tempo contribuisce a rendere sempre più armoniosa e poetica.

Sono settimane che Roma non vede la pioggia e forse è per questo motivo che oggi, una domenica qualunque di settembre, il tradizionale silenzio del non lavoro si mischia con un'aspettativa collettiva vagamente sacrale della pioggia. E' quasi religioso il silenzio che accompagna le caduta delle prime, piccole goccioline e il quadro complessivo che si disegna in cielo non altera l'equilibrio della luce nè il non-suono del silenzio.
Aspettavo e desideravo questa pioggia. Mi obbliga ad una forzata clausura e annulla qualsiasi necessità di giustificazioni improbabili. Nell'immutabilità di questa specie di prigionia domestica concentro tutte le forze sulle energie invisibili che vibrano ancora fortissime nell'aria. Sono frasi patetiche scritte su post-it che sfidano con invidiabile tenacia le forze di gravità. Pietre preziose rarissime in un universo di cocci di vetro,  frammenti di una vita dolcissima di cui ho smisurata nostalgia e incalcolabile desiderio.

Se non ti vedessi più avrei la sicurezza
che stavo sognando, che nulla era vero
che il mio letto galleggia
in un mare di sogni che facevo per noi
L'estate di domani, Diego Mancino

domenica 1 luglio 2012

La guerra è finita!

Il rumore sordo - il tonfo - di una pesante porta di metallo che si chiude può diventare, ad alcune longitudini emotive, una specie di richiamo naturale verso un puerile desiderio di rilascio meta-dimensionale, lo stargate attraverso cui tentare un improvviso salto nelle curvature dello spazio-tempo, oltre i concetti, le filosofie, le parole, dove l'unica regola è una sterile e allo stesso infinitamente complessa sequenza di numeri, dove l'unica verità è essere. O il suo esatto contrario.

La televisione sputa immagini confuse, parole gutturali e sottotitoli che non sono nemmeno in grado di decifrare ma con mia grande meraviglia mi restituisce la luminosità che volevo, la migliore di quelle possibili, almeno nelle condizioni in cui mi trovo.

Ho smesso di scrivere quando tanti hanno iniziato a chiedermi del "blog". Come se un diario, approssimativo riassunto di un esistenza interamente individuale, potesse essere aggiornato come un almanacco del giorno dopo.
Non ho mai scritto per la soddisfazione di essere letto e quindi, per definizione, ho sempre evitato di cadere nella trappola dei blogger di professione o, peggio ancora, di coloro i quali, attraverso più moderni social network, si sono scoperti geniali scrittori creativi in meno di 140 caratteri.
Parafrasando uno dei migliori album usciti in questi ultimi anni, Federica, oramai un bel pò di tempo fà, ha definito questo mio tentativo di sforzo creativo, una "cattiva abitudine". Non ricordo il contesto, ma mi piace pensare che il senso ultimo di quella definizione fosse l'intenzione di descrivere il percorso - prima ancora che l'esegesi - attraverso cui su origina il caratterere costruttivo/distruttivo delle mie parole.

"...e così veniamo avanti, simili in tutto a quelli di ieri, aggrappati ad un'immagine condannata a descriverci"

Spengo la televisione. Tutto dovrebbe essere più buio, almeno così avevo immaginato, ma le finestre filtrano le luci del cortile interno e lo schermo del computer, inevitabilmente, fa danzare le ombre delle mie dita sulla tastiera. Il frigorifero, poco distante da me, malgrado l'unica sua funzione sia quella di raffreddare solo quel poco di acqua al suo interno, emmette gorgoglii sinistri e fuori dal comune. Penso cose stupide, tipo che le differenze tra due popoli si possano misurare anche attraverso l'efficenza e la distribuzione negli ambienti degli elettrodomestici, che il polietilene è il più elementare dei polimeri sintetici ma serve a tante cose, che le padelle di ceramica hanno cambiato il mio modo di cucinare i cibi. Cose stupide. Appunto.

Un'ora fa cercavo una penna e ho trovato un computer. Ora sono stanco. Ho sonno. Domani è primo luglio e l'unico mio desiderio è che qualcuno mi svegli citando un vecchio film. "Sveglia. La guerra è finita".