La casa della memoria ha un indirizzo preciso e dei
connotati perfettamente identificabili, è una via, un palazzo, una porta senza
chiave. La conosco da quando sono nato e custodisce, immutabile, i ricordi
della mia prima vita. Mio padre, che poi è il suo sovrintendente, la conserva
con la stessa attenzione e perizia che userebbe un antiquario per preservare le
sue opere d'arte più significative e di valore e questo permette alla casa
della memoria di mantenere inalterate tutte le possibili reminiscenze.
Da un tappo bianco incastrato nel buco del lavandino parte il mio personale
viaggio nelle stanze di quella casa. E non posso non rievocare i tentativi di rimuovere, con qualsiasi arnese
domestico possibile, quel piccolo tappo bianco incastrato troppo in basso, la paura di mia madre di aver
compromesso la capacità di scarico, il terrore di dover smontare il lavabo e
della polvere degli operai.
In barba a qualsiasi logica idraulica quel piccolo tappo del
tubetto di "cortison chemicetina" è ancora al suo posto. Certo è meno
bianco e brillante di una volta ma ha superato agevolmente gli incastri del
tempo e rimane lì, a ricordarmi che potrò abitare centinaia di case diverse in
mille città diverse ma che mai potrò separarmi completamente dalle tracce di
ciò che è stato.
Le piastrelle verde scuro, il brusio della luce bianca del
neon dietro lo specchio, il rumore incontaminato della cinematica delle cose:
tutto ha un senso preciso e una logica emozionale che conduce al passaggio
successivo, ai cassetti, ai libri (che aprono altri infiniti universi di
memoria), alle fotografie. Per ogni oggetto che sposto, per ogni libro che apro
e lascio fuori posto c'è mio padre, che mi segue come un segugio e con una
dolcezza che mi commuove rimette metodicamente ogni cosa al suo posto,
preservando, inconsciamente, il cammino del percorso della memoria. Non credo
sia consapevole della missione che la nostra storia familiare gli ha affidato
ma sono sicurissimo che continuerà a svolgerla con una dedizione che lo scorrere
del tempo contribuisce a rendere sempre più armoniosa e poetica.
Sono settimane che Roma non vede la pioggia e forse è per
questo motivo che oggi, una domenica qualunque di settembre, il tradizionale
silenzio del non lavoro si mischia con un'aspettativa collettiva vagamente
sacrale della pioggia. E' quasi religioso il silenzio che accompagna le caduta
delle prime, piccole goccioline e il quadro complessivo che si disegna in cielo
non altera l'equilibrio della luce nè il non-suono del silenzio.
Aspettavo e desideravo questa pioggia. Mi obbliga ad una
forzata clausura e annulla qualsiasi necessità di giustificazioni improbabili.
Nell'immutabilità di questa specie di prigionia domestica concentro tutte le
forze sulle energie invisibili che vibrano ancora fortissime nell'aria. Sono
frasi patetiche scritte su post-it che sfidano con invidiabile tenacia le forze
di gravità. Pietre preziose rarissime in un universo di cocci di vetro, frammenti di una vita dolcissima di cui ho
smisurata nostalgia e incalcolabile desiderio.
che stavo sognando, che nulla era vero
che il mio letto galleggia
in un mare di sogni che facevo per noi
L'estate di domani, Diego Mancino